Perché la psicologia è una scienza?
Ciò che rende la psicologia una disciplina scientifica è l’impiego del metodo scientifico ai suoi oggetti di studio: i processi cognitivi ed intrapsichici dell’individuo, i suoi comportamenti e processi mentali, ma anche i rapporti tra l’individuo ed il suo ambiente.
Ciò significa che le teorie psicologiche vengono definite scientifiche perché verificate in modo pratico ed esperienziale!
Possiamo quindi individuare degli ambiti di studio che con i loro contributi, concorrono a rendere la psicologia una disciplina scientifica, fornendo conferme e rigore scientifico.
Un po’ di storia: la nascita della psicologia come scienza
La nascita della psicologia come scienza si realizza durante la seconda metà dell’Ottocento. Prima di questo periodo si erano costruite concezioni sul funzionamento psichico umano, ma mancavano di un metodo scientifico!
Darwin con la teoria evoluzionistica, fornisce un importante impulso allo sviluppo scientifico della psicologia: cambia la natura del rapporto organismo-ambiente, rifiutando il dualismo che vede la mente distinta dal corpo. Questa nuova visione dell’uomo apre la strada alla concezione della mente come il prodotto dell’evoluzione di una specie.
Altro importante contributo proviene dal positivismo, che privilegia il dato fattuale. In particolare, il positivismo psichiatrico considera la malattia mentale come un’alterazione fisiologica cerebrale, riducendo l’esperienza psichica ad un dato biologico. Questo ha consentito di studiare sistematicamente il comportamento.
Nel 1879 a Lipsia, Wundt fonda il primo laboratorio di ricerca psicologica, si applica per la prima volta il metodo sperimentale alla psicologia. Ciò permette alla psicologia di sganciarsi dall’approccio filosofico divenendo una scienza autonoma. In questo contesto vengono sviluppati programmi di ricerca sui processi sensoriali e per la prima volta si misurano quantitativamente i fenomeni psichici. Ad esempio, viene quantifica la velocità degli impulsi nervosi. Si sviluppa una teoria generale della percezione uditiva, visiva e sensoriale.
Verso la fine dell’Ottocento in Germania nasce la psicologia della Gestalt, che attraverso una serie di esperimenti studia la percezione. Si giunge alla conclusione che i fenomeni psichici non possono essere oggettivi, essi sono soggettivi. Si approfondisce così lo studio sui processi di organizzazione degli stimoli percettivi.
Un esempio è l’illusione di Zoellner.
Nei primi anni del Novecento nasce il comportamentismo, una nuova prospettiva della ricerca psicologica che esclude i fattori non direttamente osservabili o quantificabili dal campo di studio. Per Watson l’oggetto di studio può essere solo il comportamento ed il metodo di studio è l’osservazione. Nascono così le famose teorie del condizionamento classico di Pavlov e quella del condizionamento operante di Skinner. Un esempio, il condizionamento classico di Pavlov.
Negli anni ’60, in opposizione al comportamentismo, inizia a definirsi il cognitivismo. Per i cognitivisti l’uomo è un “elaboratore di informazioni”, un computer che immagazzina ed elabora i dati provenienti dall’ambiente. Sono quindi le cognizioni a determinare il comportamento. Si sottolinea la capacità di utilizzare ciò che si vede, si ascolta e si memorizza, per costruire attivamente propria la realtà. Un esempio possono essere le distorsioni cognitive, secondo Beck un aspetto importante nella patogenesi della depressione è una valutazione esagerata di idee negative verso sé stessi, il mondo ed il futuro.
Fin qui abbiamo parlato della psicologia generale, ossia quella branca della psicologia che si occupa dello studio dei processi cognitivi. È questo il primo ambito psicologico in cui vengono condotti esperimenti a sostegno di elaborazioni teoriche. Si apre la strada alla verifica empirica del funzionamento psicologico.
Le neuroscienze: mente e cervello sono inseparabili!
Lo studio del sistema nervoso viene svolto dalle neuroscienze, è quindi naturale che in esse afferiscano diverse discipline: anatomia, biologia, medicina, fisiologia e psicologia. Per le neuroscienze le rappresentazioni mentali sono modelli di attività neurale. Si indagano quindi lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del sistema nervoso, ma anche le connessioni tra le diverse aree cerebrali ed i comportamenti.
Un aspetto significativo è lo studio, oltre che del funzionamento cerebrale sano, anche di quello deficitario o patologico. Grazie allo sviluppo tecnologico oggi le neuroscienze si avvalgono di tecniche di neuroimaging: la risonanza magnetica funzionale (fMRI) che permette di studiare nel dettaglio l’attività cerebrale. La tomografia computerizzata a emissione di fotoni (PET) per analizzare i livelli di attività metabolica del sistema nervoso centrale, fornendo informazioni di tipo funzionale e consentendo una diagnosi accurata e precoce di molte patologie. La stimolazione magnetica transcranica (TMS), una tecnica di stimolazione magnetica non invasiva per studiare il funzionamento di circuiti e connessioni neurali.
Nel tempo le indagini delle neuroscienze hanno evidenziato come comportamenti, emozioni e relazioni significative incidano su mente e cervello!
Il modello biopsicosociale della mente, oggi ampiamente diffuso e condiviso, sostiene la forte influenza reciproca tra:
- sistemi biochimici neurotrasmettitoriali, ossia il substrato strutturale,
- sistemi intrapsichici, cioè personalità ed altri fattori detti “psicodinamici”, che riguardano direttamente la disciplina psicologica,
- fattori interpersonali, come famiglia e aspetti socioculturali, anch’essi oggetti di studio della psicologia.
Le neuroscienze hanno fornito importanti conferme a questo modello! Diversi studi hanno quindi dimostrato che:
- tutti i processi mentali originano da funzioni ed operazioni del cervello.
- i geni e le proteine regolati da tali sistemi, determinano le interazioni neuronali e sono coinvolti nello sviluppo delle maggiori malattie mentali.
- l’ambiente e l’apprendimento producono alterazioni dell’espressione genica, inducendo quindi cambiamenti anche a livello delle connessioni neurali.
- Sono emerse evidenze empiriche dell’efficacia delle psicoterapie: esse producono cambiamenti nel comportamento ma anche nel cervello, avendo quindi un impatto su mente e cervello allo stesso tempo.
È evidente che il lavoro delle neuroscienze fornisce un contributo fondamentale alla psicologia scientifica, poiché mette in luce come mente e cervello siano inseparabili ed interdipendenti!
La delibera dell’American Psychological Association
Dopo cinquant’anni di ricerche, nel 2012 l’APA pubblica la Recognition of Psychoterapy Effectivenes, un documento ufficiale in cui dichiara che l’efficacia delle psicoterapie è un fatto scientificamente dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Anche se tale documento riguarda le psicoterapie, trovo interessante inquadrarlo nell’analisi di ciò che rende la psicologia una disciplina scientifica. Questo perché, in esso, possiamo ravvisare alcuni elementi che riguardano anche l’intervento psicologico. Inoltre, tale dichiarazione, evidenzia:
- Le ricadute pratiche degli studi e delle ricerche che vengono svolti in ambito psicologico
- Il rigore con cui lavora la comunità scientifica per fornire validità ai costrutti teorici e agli strumenti di lavoro psicologico.
Nella Recognition of Psychoterapy Effectivenes vengono evidenziati gli elementi che assumono una rilevanza per l’efficacia del trattamento. Lo scopo generale della psicoterapia è alleviare i sintomi e produrre un cambiamento nella personalità. Tuttavia, vi sono altri obiettivi che riguardano anche lo psicologo: il miglioramento della qualità di vita, la promozione di un funzionamento maggiormente adattivo e scelte di vita sane.
Emerge che grande parte dell’efficacia dell’intervento dipende dalla relazione terapeutica! In particolare, dall’alleanza tra paziente e terapeuta, che si traduce in un accordo sugli obiettivi.
Tutto questo riguarda anche lo psicologo!
I test e la psicometria
L’utilizzo dei test per effettuare l’esame diagnostico è una competenza specifica dello psicologo. L’obiettivo è facilitare la comprensione globale dell’individuo, ottenendo informazioni utili alla pianificazione dell’intervento.
La valutazione psicologica è quindi riferita a metodi scientifici per la comprensione della personalità e viene combinata ad altre fonti di informazioni, ad esempio colloqui e osservazioni.
I test psicologici si caratterizzano per essere una misurazione obiettiva e standardizzata, infatti lo strumento del colloquio clinico può essere influenzato da molti variabili, prima fra tutte la personalità di chi lo conduce!
La psicometria si riferisce all’insieme dei metodi d’indagine psicologica per effettuare delle valutazioni quantitative, essa utilizza strumenti provenienti dall’ambito delle scienze statistiche. Un test psicologico per essere definito valido e attendibile deve rispondere ad alcuni requisiti psicometrici:
- La validità di un test si riferisce al grado in cui esso misura effettivamente la variabile che intende misurare.
- L’attendibilità si riferisce al grado di precisione, oggettività e stabilità di una misura. In pratica un test è attendibile quando applicato agli stessi individui da operatori differenti, in contesti e momenti diversi, comunque fornisce il medesimo risultato.
- Lo stile di risposta evidenzia gli elementi di distorsione nella misurazione della variabile in esame. Un esempio è la desiderabilità sociale, ossia la tendenza a rispondere al test dando un’immagine di sé favorevole. All’interno dei test vengono quindi inserite delle scale specifiche per individuare e misurare tale distorsione.
- La standardizzazione di un test viene effettuata una volta che le condizioni precedenti sono state soddisfatte. La procedura di standardizzazione va ad uniformare le procedure di somministrazione e la determinazione di norme statistiche. In pratica, il test viene somministrato ad un gruppo di soggetti rappresentativo della popolazione a cui si rivolge il test. Su tale campione vengono calcolate le prestazioni medie e le frequenze di deviazione intorno alla media (deviazione standard). Grazie a questa procedura possiamo individuare la posizione del singolo individuo rispetto al campione totale, stabilendo se la sua prestazione è nella media o quanto vi si discosta.
Da questa sintetica descrizione è evidente come, anche nel caso di un semplice questionario, vi sia un lavoro impegnativo e rigoroso dal punto di vista psicometrico.
La Teoria dell’attaccamento
Tutte queste informazioni tecniche rispecchiano bene la grande complessità dell’argomento. Tuttavia, si rischia di rimanere sganciati dagli aspetti pratici. Mi sembra quindi opportuno portare un esempio di come i diversi elementi descritti fin qui possono combinarsi, dando vita ad una teoria valida e scientifica, utilizzata nella patica clinica: la teoria dell’attaccamento.
Tra gli anni Sessanta ed Ottanta del Novecento, John Bowlby, elabora la Teoria dell’attaccamento. Partendo dallo studio del comportamento di bambini deprivati, dalle scoperte di Lorenz sull’imprinting delle anatre e dagli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus, l’autore ipotizza un sistema motivazionale primario e autonomo, quello dell’attaccamento.
Possiamo distinguere tre fasi di sviluppo della teoria dell’attaccamento:
- Formulazione concettuale e sistematizzazione teorica ad opera di Bowlby
Bowlby ritiene che i bambini nascano con un repertorio comportamentale selezionato durante l’evoluzione della specie. I comportamenti di attaccamento hanno la funzione di favorire la vicinanza con la figura di accudimento, grazie ad alcuni segnali agiti dal bambino: sorriso, pianto, vocalizzi, gesto di sollevare le braccia. Ciò comporta sia la vicinanza fisica dell’adulto ma anche comportamenti del bambino volti a mantenere tale vicinanza: seguire, aggrapparsi, suzione a fini non alimentari.
La funzione della figura di attaccamento è quella di proteggere il bambino favorendone l’esplorazione dell’ambiente circostante. La ricerca di vicinanza consente al bambino di regolare e ridurre le emozioni negative, tale capacità verrà gradualmente acquisita dal bambino.
Basandosi sulla teoria dell’informazione Bowlby sviluppa il concetto di modello operativo interno (MOI). Viene ipotizzato che il sistema comportamentale di attaccamento sia organizzato in rappresentazioni mentali della figura di attaccamento, ma anche di sé stessi e dell’ambiente. Ad esempio, alla rappresentazione di un genitore amorevole corrisponde la rappresentazione di un sé amato. Questi MOI garantiscono stabilità, consentendo al bambino di sviluppare strategie difensive e di coping, che saranno diverse a seconda dello stile di attaccamento.
- Validazione empirica ad opera di Mary Ainsworth
Mentre Bowlby è impegnato a definire le basi concettuali, Mary Ainsworth inizia a studiare i bambini attraverso l’osservazione delle loro interazioni con le madri. Nel 1969 elabora una procedura sperimentale su base osservativa, la Strange Situation Procedure (SSP). L’obiettivo è valutare la qualità dell’attaccamento madre-bambino, studiando le differenze individuali.
Il presupposto della SSP, è che i bambin tra i 12 ed i 18 mesi, utilizzano la figura di attaccamento come base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente, ma anche a cui tornare in caso di stress, per ricevere rassicurazione e conforto.
La procedura consiste in 8 episodi: 1. Breve familiarizzazione con l’ambiente non familiare 2. Mamma e bambino vengono osservati da soli nella stanza 3. Entra un estraneo che inizia un approccio graduale con il bambino 4. La mamma esce dalla stanza 5. Rientro della madre ed uscita dell’estraneo 6. Nuova uscita della madre, il bambino rimane solo 7. Rientro dell’estraneo 8. Rientro della madre.
Dai dati raccolti, emerge come in base alle modalità di riavvicinamento tra mamma e bambino, è possibile classificare lo stile di attaccamento secondo quattro modelli:
- Stile Sicuro: in presenza della mamma il bambino gioca ed esplora l’ambiente. Almeno durante una separazione sposta il suo focus verso la mamma, ricercandola almeno durante una delle riunioni. Negli episodi prima delle separazioni il bambino esplora con interesse, controllando occasionalmente la presenza del genitore o ritornandovi occasionalmente. Durante le separazioni il bambino mostra segni di mancanza della mamma, accogliendola attivamente al suo ritorno iniziando un contatto fisico, per poi riprendere a giocare ed esplorare.
- Stile Evitante: il bambino è focalizzato sull’esplorazione dell’ambiente e dei giocattoli, sia quando la mamma è presente ma anche quando esce dalla stanza o ritorna dopo la separazione. Non piange alla separazione, evita o ignora la mamma durante la riunione: si allontana, gira la testa. C’è scarsa ricerca di contatto e vicinanza da parte del bambino e poca espressione di disagio alla separazione.
- Stile Ambivalente: il bambino è focalizzato sul genitore per la maggior parte del tempo, con scarso o nessun interesse per l’ambiente ed i giocattoli. Non riesce a calmarsi e a trovare conforto al rientro della mamma, continuando a piangere. Segni di rabbia verso la mamma si alternano a tentativi di contatto.
- Stile Disorganizzato: in presenza del genitore il bambino mostra comportamenti disorganizzati e/o disorientati, un crollo delle strategie comportamentali: può verificarsi il fenomeno del freezing, in cui il bambino assume un’espressione simile alla trance, può sorridere nel veder rientrare il genitore per poi rannicchiarsi sul pavimento o può piangere aggrappandosi con lo sguardo fisso sul genitore. Un dato importante è che le madri dei bambini con questo stile di attaccamento, si caratterizzavano per un lutto non elaborato o gravi eventi traumatici come violenza o incesto. Inoltre, questo stile è quello più frequentemente riscontrato nei campioni ad alto rischio, risultando predittivo di psicopatologia.
- Le rappresentazioni mentali dell’attaccamento: Mary Main e l’Adult Attachment Interview
Negli anni Ottanta lo studio dell’attaccamento si sposta sulle rappresentazioni mentali delle interazioni madre-bambino. Mary Main crea uno strumento capace di classificare “lo stato della mente adulta rispetto l’attaccamento”: l’Adult Attachment Interview (AAI).
Si tratta di un’intervista per indagare le esperienze di attaccamento nell’infanzia, insieme ai loro effetti sul funzionamento dell’individuo. Si identificano quattro stili di attaccamento adulto, corrispondenti alle categorie individuate dalla Ainsworth:
- Stile Sicuro/autonomo: discorso coerente, con consapevolezza di come le esperienze di attaccamento hanno successivamente influito, quindi anche ammissione di mancanza o bisogno. Atteggiamento di apertura, flessibilità nell’attenzione, sembra a suo agio nelle proprie imperfezioni, mostra perdono, compassione, humor.
- Stile Distanziante: corrisponde all’vitante della SSP, è incoerente, le rappresentazioni positive sono generalizzate e non supportate da ricordi o anche contraddette da essi. Insistenza sulla mancanza di ricordi, valutazioni sprezzanti con rifiuto attivo di parlare di un evento o di una figura di attaccamento. Si descrive come forte e indipendente, minimizza e sdrammatizza esperienze negative.
- Stile Preoccupato: corrisponde allo stile Ambivalente nell’infanzia. È prolisso, le risposte sono confuse, può utilizzare il presente invece del passato, le risposte sono connesse fortemente ai genitori anche quando la domanda non li riguarda. Può riportare esperienze spaventanti, incolpa fortemente i genitori o sé stesso,
- Non Classificabile: individuata successivamente questa categoria si riferisce ad interviste in cui emergono stati mentali incompatibili o contraddittori. Emerge un funzionamento mentale dissociato.
Nel tempo sono nati numerosi strumenti per la valutazione dell’attaccamento, insieme ad ulteriori studi e nuove teorie. Il nostro focus però è su come, partendo dai dati osservativi, si siano gettate delle basi teoriche poi verificate empiricamente. Grazie alle procedure sperimentali è stato possibile validare la teoria dell’attaccamento, ma anche individuare ulteriori elementi significativi successivamente approfonditi ed oggi ampiamente utilizzati e riconosciuti.
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